Quando per fare un esame serve cambiare regione

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La chiamano migrazione sanitaria, addirittura turismo sanitario, ma questo fenomeno sommerso è una vera e propria emergenza sociale. 

Attese infinite, distanze chilometriche, mancanza di macchinari. Per molti cittadini l’accesso alle cure è quasi un’utopia. Ma ne avete mai sentito parlare? 

Se non siete direttamente coinvolti, probabilmente no. 

Perché la migrazione sanitaria in Italia è un fenomeno fantasma, di cui si sa poco o niente, ma che racconta purtroppo di problemi insostenibili che rendono la vita molto difficile o drammaticamente complicata a centinaia di migliaia di cittadine e cittadini, adulti e minori.

Un esodo inimmaginabile

Da una ricerca condotta dal Censis nel 2017 emerge che sono 750.000 le persone che ogni anno si spostano per farsi curare in una regione diversa dalla loro, un esodo biblico se aggiungiamo i circa 650.000 accompagnatori, con la valigia sempre pronta per la necessità di ripetere i ricoveri e le cure a centinaia di chilometri dalla propria casa più volte l’anno. Spesso poi le terapie sono molto lunghe, e al dolore della malattia si aggiungono anche difficoltà pratiche, economiche e organizzative, perché ritrovarsi in una città che non si conosce non è affatto semplice.

Il 54% migra in direzione di ospedali altamente specializzati, il 21% lo fa per l’impossibilità di fruire nella propria regione delle prestazioni di cui necessita o perché le liste d’attesa sono lunghissime. Parliamo quindi di oltre 200.000 malati che vivono in situazioni difficili sotto tanti aspetti: sotto il profilo umano, ma anche logistico e non da ultimo economico, a causa della forzata permanenza lontano dalla casa. 

Problematiche che affliggono anche chi li assiste, come i genitori di bambini malati di cancro, leucemie, malattie rare. Nel caso per esempio dei pazienti oncologici e dei loro accompagnatori, le spese annuali sostenute sono circa 7.000 euro l’anno per visite mediche, farmaci, infermieri privati e viaggi, e mediamente un malato perde, da mancati guadagni, circa 10.000 euro l’anno, 6.000 il familiare accompagnatore. Quest’ultimo riconosce che nel 70% dei casi ha avuto problemi con l’attività lavorativa, che arrivano fino al licenziamento per il 2%.

Ma cosa si può fare?

Abbiamo il dovere morale di far emergere questo fenomeno, ma soprattutto, di trovare soluzioni possibili, senza mai perdere di vista che ogni numero è un essere umano, piegato dal suo carico di dolore, che aspetta di vedere riconosciuto il diritto alla salute sancito dall’art. 32 della nostra Costituzione. La sanità dovrebbe sostenere i migranti sanitari con investimenti massivi. 

Ma sei il denaro non c’è o finisce altrove? Si può aiutare chi aiuta.

Aiutare chi aiuta

Le organizzazioni di volontariato riescono ad aiutare circa il 10% dei malati e dei loro accompagnatori fornendo un alloggio temporaneo economicamente accessibile e a volte totalmente gratuito, come per esempio per tutti i minori e le famiglie in stato di necessità. 

Le istituzioni dovrebbero innanzitutto riconoscere in modo appropriato queste organizzazioni, perché oggi la legislatura le equipara alle “case vacanza” (alla stregua di ostelli, baite di montagna, ecc.) allontanandole, da un punto di vista giuridico, dalla loro autentica mission.

 
Dovrebbe essere aperto un tavolo di lavoro permanente per trovare sinergie tra volontariato sociale, ospedali, sanità, welfare, al fine di ridurre al minimo i disagi dei migranti sanitari. Questo consentirebbe di iniziare un processo virtuoso di riduzione dei costi della degenza ospedaliera.

Come sempre, laddove i governi non arrivano, arrivano le persone. Anzi, gli esseri umani.

Categorie:Storie di Malasanità

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